La speranza dei malati che soffrono di malattie incurabili è nella ricerca che va avanti. Ma qual è lo stato di salute della ricerca medica in Italia? E quali sono i nodi da affrontare per svilupparla? Se ne è discusso al
«Tempo della Salute», in corso a Milano presso Palazzo dei Giureconsulti, durante un incontro intitolato «Il futuro della ricerca medica in Italia» moderato dal responsabile editoriale del Corriere Salute Luigi Ripamonti, con Anna Maria Bernini, ministro dell’Università e della Ricerca,
Sergio Harari, professore associato di Medicina Interna all’Università di Milano, Alberto Mantovani, professore emerito di Patologia Generale all’Humanitas University a Milano.
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La sfida
È convinzione diffusa che un Paese che non ha a cuore lo sviluppo della propria ricerca scientifica sia destinato ad avere sempre di più, in prospettiva, un ruolo secondario e subalterno sullo scenario mondiale, con ricadute sociali, economiche e sanitarie. Ma cosa vuole dire «investire in ricerca»? Quali sono i nodi da affrontare?
Il «miracolo» del Servizio sanitario nazionale
Premette il professor Mantovani: «Il Servizio Sanitario Nazionale fa miracoli, continua a essere uno dei migliori al mondo. C’è un miracolo, per esempio, che conosco meglio, ed è il miracolo della sopravvivenza dei pazienti oncologici. Un malato oncologico in Italia ha un’aspettativa di vita superiore a quella dei pazienti europei e uguale o superiore a quella dei Paesi del Nord Europa che investono molto di più in salute. Alla base di questi miracoli del nostro Paese, un po’ dimenticati, ci sono le competenze, la dedizione del personale sanitario - medici, infermieri, tecnici - , ma anche la ricerca perché il nostro Paese ha una forte tradizione in questo settore. In alcuni report fatti in altri Paesi si parla di miracolo italiano. Alcuni indicatori, per esempio, sono i bandi europei di ricerca oncologica: a fronte di investimenti inferiori ad altri Paesi, noi ce la battiamo più o meno alla pari con la Germania. Abbiamo un patrimonio straordinario di cervelli, anche se siamo dei donatori di cervello, mentre altri Paesi hanno un equilibrio tra uscite e entrate, noi siamo in forte disequilibrio — sottolinea Mantovani —. Questo fa da cartina di tornasole del potenziale del Paese che, d’altra parte, mette in luce le debolezze italiane, e deve essere motivo di riflessione. Così come devono essere motivi di riflessione il problema dell’accesso alle piattaforme tecnologiche e anche il problema dell’accesso nel sistema pubblico a dei bandi finanziati ogni anno. Per esempio, come ricercatore individuale posso fare domanda ogni anno negli Stati Uniti perché so che ci sono tutti gli anni dei bandi di ricerca individuale. Questo è un pezzo di ricerca efficiente e normale che manca nel nostro sistema pubblico.
Da noi ci sono finanziamenti, che vengono chiamati Prin (Progetti di rilevante interesse nazionale), che vanno benissimo, ma manca la possibilità di partecipare a bandi, ogni anno, anche per i ricercatori che vengono dall’estero. E poi, — sottolinea l’esperto — c’è un carico a livello burocratico, con lacci e lacciuoli, che affligge noi ricercatori. Questo Paese ha un patrimonio di cervelli e di cuore - ovvero di passione -, che si possono esprimere meglio di quanto facciano»
Irccs, «un vanto» italiano
E, per essere attrattivi, per la ricerca è necessario agire in molte direzioni diverse. Una, che è anche un’opportunità, riguarda per esempio il ruolo non abbastanza valorizzato e sfruttato degli Irccs (Istituti di Ricovero Clinici a Carattere Scientifico), che pure sono «un vanto» italiano. Dice il professor Harari: «Abbiamo una tradizione di ricerca e, con gli Irccs, è possibile la ricerca traslazionale che ha un’applicazione pratica: sono 54 gli Irccs distribuiti su tutto il territorio nazionale, e la loro vocazione è fare ricerca e trasferirla al letto del paziente. Andrebbero in qualche modo migliorati alcuni aspetti, per esempio la compartimentazione tra le attività di ricerca e quelle di assistenza, e poi andrebbero potenziate alcune aree strategiche per il Servizio sanitario nazionale, per esempio l’area “gender”: sappiamo che le donne hanno specificità, per esempio sviluppano più tossicità ed effetti collaterali degli uomini, hanno una farmacocinetica diversa dagli uomini, però la stragrande maggioranza delle sperimentazioni riguarda il sesso maschile. Ancora —prosegue Harari —: anche gli anziani hanno specificità perché soffrono di più patologie, mentre siamo abituati a fare ricerca su singole patologie. Gli Irccs, poi, sono il posto ideale dove sperimentare alcuni insegnamenti, per esempio come si fa ricerca. Come pure andrebbe valorizzata la ricerca che si fa in grandi ospedali. Ce la giochiamo all’italiana ma abbiamo ancora un SSN che tra mille difficoltà rappresenta un valore aggiunto anche in termini di ricerca».
Cervelli in fuga
Uno dei problemi urgenti da risolvere è trattenere nel nostro Paese le menti migliori, offrendo loro prospettive concrete. Che un giovane oggi debba scegliere fra la possibilità di fare il ricercatore oppure quella di farsi una famiglia sembra una frase fatta ma è quella davanti alla quale molti degli scienziati più promettenti si trovano, a causa delle quale finiscono per essere costretti ad andare all’estero.
Ha detto il ministro dell’Università e della Ricerca: «L’espressione cervelli in fuga non mi appassiona; quello che dobbiamo fare non è alzare barriere per evitare che i cervelli escano, ma creare condizioni perché tornino, quindi dobbiamo creare infrastrutture di ricerca. Per far tornare i ricercatori — ha sottolineato Bernini — bisogna interconnettere le nostre strutture di ricerca: la ricerca funziona solo se è cooperativa, perché il più delle volte si tratta di un lavoro di squadra. Quanto al problema dei finanziamenti – dice il ministro – la ricerca non è finanziata in modo uguale ogni anno. In questi anni è capitato che gli enti di ricerca siano stati “irrorati” da fondi, alcuni così cospicui da non riuscire a essere spesi; altre volte i finanziamenti non sono stati adeguati. La seconda criticità è che i fondi spesso si disperdono in mille rivoli, a volte l’erogazione di finanziamenti è un po’ troppo polverizzata. La buona ricerca anche a livello internazionale nasce dall’interconnettere le nostre strutture di ricerca - ripete il ministro Bernini —. I fondi del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) dobbiamo usarli come investimento. In che modo? Per portare di nuovo in Italia i ricercatori andati all’estero - magari portandosi dietro anche ricercatori stranieri - creando infrastrutture destinate a durare».
Il ministro cita l’esperienza del Tecnopolo di Bologna, dove è collocato il supercomputer Leonardo. «Questa — dice Bernini — è una infrastruttura di ricerca che può portare nel nostro Paese italiani che nel mondo si sono fatti valere. Altro centro nazionale rilevante per la ricerca medica riguarda lo sviluppo della terapia genica e farmaci a tecnologia Rna, che vede come capofila l’università di Padova e il coinvolgimento di 30 università ed enti di ricerca, oltre che di aziende».
Quanto al Fondo di finanziamento ordinario, chiarisce il ministro, «è solo uno dei finanziamenti che le università ricevono dal ministero. Per il 2025 raggiungerà il massimo storico andando oltre i 9 miliardi. Ma ci sono tantissimi modi attraverso i quali il ministero finanzia le Università con fondi pubblici, per cui deve essere rassicurato sulla qualità della spesa».
Il ministro specifica che, visto che i fondi del Pnrr finiranno nel 2026, nella proposta di Legge di Bilancio sono previsti, per i Centri nazionali finanziati attraverso i fondi del Pnrr, 300 milioni per gli anni 2027-28 che saranno erogati in base a indicatori di performance»
Ricerca indipendente
E poi, occorre rendere attrattivo il Paese per la ricerca clinica sponsorizzata e indipendente. «Siamo in tempo ristrettezze per il Servizio sanitario nazionale, i nuovi farmaci hanno effetti che si possono osservare con gli anni, mentre la prevenzione ha benefici immediati che hanno ripercussioni sia sulla salute generale che sul SSN — sottolinea Harari—. E poi, c’è il tema della ricerca indipendente. Ci sono i bandi di Aifa (Agenzia italiana del farmaco), ma la ricerca indipendente può essere fatta con fondi pubblici, ha un ruolo determinante e va potenziata. Perché — conclude l’esperto — la ricerca è un investimento e non è mai una spesa»..
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