Sì, è un momento difficile, difficilissimo ma anche per certi versi straordinario. Noi medici siamo tutti subissati di messaggi di solidarietà e di affetto. Sono in moltissimi a scriverci, amici e colleghi da mezzo mondo, persone perse di vista da anni, pazienti che si ricordano di chi in passato li ha aiutati. C’è chi si offre di farci la spesa, chi di portarci un pranzo caldo, l’offerta di aiuto a chi, in prima linea sul campo, ha ridotto i contatti familiari e personali, è toccante. Molti di noi, infatti, sentendosi a maggior rischio, si sono separati dalle loro famiglie, figli, mogli e mariti, genitori, e si sono autoisolati anche dagli amici, per evitare di poter eventualmente mettere a rischio la salute altrui, mentre i carichi massacranti di lavoro non lasciano il tempo neanche per fare una telefonata ai proprio cari
(qui la testimonianza di un medico di Bergamo: «Negli ospedali come in guerra. A tutti dico, state a casa»).
Viviamo in un mondo a parte. Abbiamo modificato perfino il nostro modo di vestire, tanto in ospedale ci cambiamo e vogliamo portare a casa meno capi di vestiario possibili entrati in contatto con l’ambiente. Io, che solitamente vesto camicia e cravatta sotto il camice d’ordinanza, indosso, come tutti i miei collaboratori, un orribile camice di carta monouso giornaliero che si appiccica da tutte le parti appena si suda un po’. Ci vediamo diversi, stanchi, con le occhiaie, ci guardiamo tra di noi con occhi stralunati, ma siamo solidali, scherziamo con l’ironia che ci consente la drammaticità della situazione. I contatti con i colleghi impegnati in altri ospedali sono continui anche se sintetizzati al massimo da messaggi di WhatsApp, non si possono perdere minuti preziosi al telefono.
Si va avanti in una città spettrale mentre gli ospedali hanno cambiato faccia, con sale di attesa deserte e corridoi vuoti. Intanto, un’altra parte del mondo sembra non capire. «Sono partiti a mezzanotte. Nonostante le gride che proibivano di lasciare la città e minacciavano le solite pene severissime, come la confisca delle case e di tutti i patrimoni, furono molti i nobili che fuggirono da Milano per andare a rifugiarsi nei loro possedimenti in campagna». Correva l’anno 1827 quando Manzoni raccontava l’esodo dei milanesi durante la peste del ‘600 nei Promessi sposi, oggi invece abbiamo le autocertificazioni e le deliranti scene penose alle quali abbiamo tristemente assistito. L’Italia è questa, divisa tra generosità, solidarietà e quotidiani egoismi. Ma questi ultimi non possiamo più permetterceli.